Le mafie come parte della biografia italiana, intervista a Isaia Sales

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L’ultimo libro di Isaia Sales, “Storia dell’Italia Mafiosa” è un libro complesso che dovrebbe essere considerato tanto saggio storico, quanto opera di alta ed indubbia valenza politica. In esso, il fattore centrale e derimente è la mafia vista come componente essenziale della storia d’Italia. Se, in effetti, essa fosse  soltanto  un fenomeno delinquenziale, sarebbe stata certamente sconfitta già da tempo.Invece le mafie, nate durante il dominio dei Borbone, radicatesi nello Stato unitario, hanno seguitato e seguitano ad esistere , influenzando profondamente le vicende politiche, sociali ed economiche del nostro paese.

Sales, che insegna Storia delle mafie all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli ed è stato anche sottosegretario al ministero del Tesoro nel primo governo Prodi , è convinto assertore del fatto che le mafie siano state e siano anch’esse partecipi dell’autobiografia della nazione. Quindi non un fenomeno di contorno. E certamente non un fenomeno limitato esclusivamente al Mezzogiorno del nostro paese.

Non è della società meridionale, con tutte le sue debolezze, scrive Sales, la responsabilità del fenomeno. Il sud, piuttosto, deve essere considerato una vittima. La classe dirigente del Nord è stata infatti da sempre alleata con la classe dirigente siciliana che aveva come principale puntello la mafia. La struttura del latifondo ha di certo favorito il fenomeno. Ancora oggi gli eredi dei latifondisti di un tempo, principi e marchesi siciliani, amano scrivere memorie in cui, con assoluta naturalezza, raccontano gli incontri quotidiani con i capimafia un tempo al loro servizio.

Illuminante, per capire i tanti risvolti interessanti presenti nel libro; così come per comprendere a fondo le motivazioni ed il ragionamento che stanno alla base delle tesi dell’autore, è questa intervista concessa dal professor Sales qualche mese fa. Ne riportiamo alcuni stralci salienti.

1) Come sintetizza le relazioni tra potere mafioso, potere politico e potere giudiziario nel novantennio che va dal 1861 al 1945?

Dal 1861 al maxi processo del 1986 nel distretto di Palermo ci sono stati solo 10 ergastoli a mafiosi, nonostante migliaia di delitti. Più di 500 da quel processo in poi. Per più di un secolo e mezzo la mafia siciliana è rimasta sostanzialmente impunita. Dei cinquanta assassini di sindacalisti, dirigenti contadini e bracciantili avvenuti nei primi anni del secondo dopoguerra, nessun colpevole è stato punito. Per decine e decine di anni i capi mafiosi sono stati latitanti senza muoversi dai loro territori. E’immaginabile tutto ciò senza un rapporto stretto con i poteri  dello stato? Basta leggere cosa scriveva Giuseppe Lo Schiavo, il più importante magistrato italiano nel 1954 alla morte di Calogero Vizzini, il capo della mafia siciliana. Ecco le sue considerazioni scritte per una rivista, “Processi” destinata ai cultori della legge: “Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi ed ai fuorilegge ha affiancato addirittura le forze dell’ordine. Oggi si fa il nome di un autorevole successore di Don Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto alla legge dello Stato e al miglioramento sociale della collettività».

Che dire di questo vero e proprio elogio funebre di un mafioso da parte del più alto in carica tra i magistrati italiani, per di più siciliano? Questo articolo non fece scalpore, il magistrato non fu richiamato né il suo parere contrastato, né si usò verso di lui alcuna misura disciplinare. Il suo scritto fu considerato «normale» perché tale era la percezione che le classi dirigenti della Sicilia e dell’Italia avevano della mafia siciliana.

2) Cosa intende per “politicità delle mafie”?

La politicità delle mafie non consiste nel senso semplicistico che le mafie fanno politica, ma nel senso che il modello mafioso e alcuni modelli politici si somigliano. In genere chi svolge l’attività politica non vorrebbe condividere il suo potere con nessun altro, né con i mafiosi, né con i magistrati, né tanto meno con gli imprenditori. Il politico punta a una concezione monopolistica del potere, una pulsione che la democrazia matura riesce a disciplinare solo attraverso la pluralità delle forme di governo della società. Eppure nei confronti delle mafie questa insofferenza si è manifestata poche volte, e solo all’indomani di delitti eccellenti. Sostenere che politica e mafia sono la stessa cosa sarebbe una sciocchezza enorme oltre che una falsità storica. Eppure se le mafie continuano a esistere, ad avere potere e ricchezza, vuol dire che la politica non ha fatto tutto il suo dovere. Per paura? Non solo. Per bisogno di voti e di consenso? Non solo. C’è qualcosa di più profondo nella storia politica italiana, e purtroppo anche in quella di molte nazioni oggi alle prese con problemi analoghi. Se può esistere (ed esiste) una politica senza mafia e perfino in lotta contro la mafia, non può darsi mafia senza l’appoggio della politica. C’è, evidente, una vicinanza, una sintonia, una mescolanza tra il sistema clientelare nell’uso delle risorse pubbliche e il sistema mafioso. O meglio, il sistema clientelare apre le porte degli enti pubblici ai mafiosi, i quali una volta entrati ne diventano egemoni perché diversamente dai politici e dai funzionari essi hanno a disposizione l’arma della violenza. È il sistema clientelare che legittima il sistema mafioso. E non si tratta più solo di un problema meridionale.

3) Perché le mafie fanno parte a pieno titolo della storia politica e istituzionale dell’Italia?

I mafiosi vivono e operano in linea di massima all’interno delle funzioni dello Stato, non in contrapposizione ad esse e a chi le rappresenta. In Italia e nel Sud non è stata mai definitiva la regolazione della forza e della violenza solo da parte dello Stato. Tantomeno dopo l’Unità d’Italia. Per secoli il diritto (come regolazione sociale) ha avuto come unico criterio la forza. E le mafie ne sono una conseguenza. Attribuire il successo delle mafie alla mentalità meridionale è un’offesa alla storia. L’istituzionalizzazione di un potere criminale in genere si realizza solo con il suo riconoscimento diretto o indiretto da parte delle istituzioni legittime; una volta che ciò è avvenuto, è normale che a riconoscerlo siano anche i normali cittadini. L’accettazione sociale del potere mafioso è alla base del suo successo, ma questa accettazione si compie prima da parte delle istituzioni statali e poi dai comuni cittadini. Non bisogna mai dimenticare che la prima legittimazione le mafie l’hanno avuta con la nascita dello Stato unitario. Le mafie hanno avuto bisogno che si formasse lo Stato nazionale per assumere un ruolo centrale che prima non erano riuscite a svolgere completamente sotto i Borbone.

Il nuovo Stato e le sue classi dirigenti sentirono come una necessità governare il Sud servendosi degli ordinamenti in essere in quei territori (comprese le mafie) riconoscendoli ufficiosamente. Il disprezzo che molti di essi avvertivano verso i ceti dirigenti e possidenti meridionali non li spingeva a rifiutarne l’alleanza. L’Unità d’Italia, e in particolare il modo in cui si stabilirono i rapporti tra classe dirigente del Nord e del Sud, ha consentito la «nazionalizzazione delle mafie».

Il libro di Sales verrà presentato venerdì 1 aprile ad Ottaviano, nei locali del Salone Margherita, con inizio alle 19