San Ferdinando. Pigmalione: siamo sicuri che è Napoli?

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Ancora fino al 20 si protraggono le repliche di “Pigmalione” di G.B. Shaw al teatro San Ferdinando. La storia della del ricco ed eccentrico professor Higgins che si propone di trasformare la povera ed ignorante Eliza in una donna raffinata attraverso l’insegnamento della lingua e delle buone maniere diventa nell’adattamento di Manlio Santanelli la vicenda del Professor Ermete Puoti, esperto di fonetica e linguistica, che fa della volgare fioraia (vasciaiola) Luisella Diodato una nobildonna la cui provenienza non viene riconosciuta più neanche dai più acuti linguisti. Alla fine la donna capisce che il tutto si è risolto in una perdità d’identità, di spontaneità originaria nel gesso di maniere:  simbolicamente sono rappresentate dalle maniche attaccate al vestito da dama che le impediscono di muovere le braccia, nell’ultimo atto se le strappa come per liberarsi da un giogo.

Peccato che tutto risultasse troppo “recitato”: il napoletano della protagonista Gaia Aprea non risultava credibile, dall’interpretazione usciva un personaggio tipo, un bozzetto della figura di donna napoletana che non rispecchia certo la veracità di una Pupella Maggio o di una Regina Bianchi, che certo l’attrice deve aver osservato ben poco. Più realistico nel dialetto si è rivelato Giacinto Palmarini per Gaetano Diodato, il padre di Luisella che la vende al professore per cinquanta lire e professa di voler rimanere scopatore quando alla fine suo malgrado gli danno la medaglia d’onore alla morale. Preciso, ma non realistico a livello drammaturgico: pur essendo un ignorante dei bassifondi ha in bocca ragionamenti e strumenti di comprensione che talvolta si pongono alla pari del professore e del conte Maffei, suo leccapiedi. La regìa di Benedetto Sicca non era invadente, ha peccato nei punti d’assieme in cui gli attori tendevano ad assumere pose, rimando a un vecchio teatro di maschere che in una pièce moderna stona. Piacevole l’accompagnamento per tutto lo spettacolo del violino di Riccardo Zamuner, suggellato poi nell’assolo cantato e parlato di Luisella quando ritorna popolana adesso consapevole, di non facile esecuzione.

La riscrittura presenza diverse falle drammaturgiche: Luisella passa a parlare napoletano nell’ultima scena all’improvviso, senza motivo riguardo alla precedente affermazione di essersi dimenticata ormai la sua vecchia lingua; Luisella capisce di essere stata sfruttata grazie alla formazione culturale che il professore le ha dato e questo dato non viene fuori, non si capisce quindi se la conclusione che vuole darne la rielaborazione sia positiva o negativa riguardo alla validità degli strumenti della “morale borghese”. L’opera si presenta comunque una buona occasione per riflettere su temi che Shaw meditava già nel 1914: la schiavizzazione della persona in una società di immagine, l’esteriorità dei comportamenti (dell’alta borghesia allora, ma ancora oggi in molti casi la forma si considera sostenza), attraverso la figura chiave del professore che non si cura minimamente del destino di Luisella/Eliza dopo la “trasformazione” e per lei non ha nessuna umana stima, considerandola un “animaletto”, una cavia da esperimento. Noi siamo la fioraia, il meccanismo sociale Higgins/Puoti.