San Michele a Ottaviano. Perché festeggiare?

Pubblicità

Oltre il business, oltre l’appariscenza, oltre le giostre per gli scalmanati, oltre le birre, quanti si chiedono il perché della tradizione? Un’usanza che per molti è un automatismo ha il suo preciso perché all’interno dell’orizzonte umano. Anzi, guai se non fosse un “automatismo”. L’indagine che ci portano a sperimentare l’antropologia e l’etnologìa, scienze dell’uomo sociale, ci fanno gettare lo scandaglio nelle profondità inconsce di una mentalità di comunità e decodificano i segni di un’identità.

Visto che il Santo Michele non c’entra nulla con il palio degli asini o la Diana, perché tutti sono contenti di tale miscuglio di “paganità” diffusa? Il motivo sta nello scambio a livello umano delle categorie di sacro e profano, due polarità che interagiscono proprio nella festa. Qui entra in gioco il discorso del rito, che può essere così definito: un’azione o un sistema di azioni che si collocano in una dimensione “a parte”(sacra) rispetto a quella quotidiana(profana). Si richiama il nesso natura/cultura: il rito trasferisce sul piano della cultura, dove sono interamente rielaborati, i momenti salienti dell’esperienza umana: ad esempio, nelle società tribali come nelle nostre, per accedere alla maggiore età, per sposarsi, persino per morire si effettua un rito di passaggio (spegnere le candeline, la cerimonia in chiesa o in comune etc.), così il singolo e il gruppo ne escono rafforzati e confermati nel loro assetto.

Del problema si è occupato anche Ernesto De Martino, osservando la funzione della festa nelle società del Mezzogiorno (“Morte e pianto rituale”; “Sud e magia”; “Storia e metastoria”; “La fine del mondo”). Il soggetto e la collettività attraversano dei momenti critici nel corso della propria storia, il momento del raccolto in civiltà ad economia agraria, una guerra, nel nostro caso la dimostrazione che il Comune è vivo e la paura della perdita dell’ “ottavianesità”: in tale ambito si determinano le premesse per un nuovo ciclo esistenziale. E’ il tempo in cui è cogente il senso dell’esserci, cioè di continuare a esistere ed esistere secondo la propria identità; non si può correre il rischio che non vi sia trascendimento della situazione critica nel valore, avviene quindi l’inserimento dell’evento in un ricorrere dell’identico capace di inglobare anche l’inedito nella stabilità del “già accaduto”. A questo serve la destorificazione religiosa, processo per cui l’evento critico viene tolto dalla singolarità storica e restituito al rifugio di qualcosa di già visto, già fondato. Tra questi riti rientra anche la festa, nella cui occasione, pur se collocato in un momento preciso, il tempo si ferma, si sospende nel tempo del Mito.

Si tratta di riattualizzare la svolta originaria e paradigmatica: il passaggio dal caos all’ordine che ha preso forma nella dimensione creatrice sacra del mito (qui la storia di San Michele con quella di Ottaviano), in concomitanza con la fondazione dei sistemi di valore in grado di conferire senso all’esistenza umana, depositati nella memoria collettiva. Questa è una funzione salvifica: la festa è un’istituzione destinata a promuovere- attraverso il ritorno al sacro- l’ordine mondano, ossia la sicurezza dell’ordinato susseguirsi delle opere e dei giorni che scandiscono il tempo normale. Costituisce una misura culturale atta a far fronte ai pericoli estremi insiti nel divenire e finalizzata a restituire-proprio fermando la storia per un lasso di tempo- l’uomo al piano del divenire storico, dove risiedono le possibilità di realizzazione. I momenti salienti della vita sociale non sono lasciati a sé stessi, ma vengono assunti culturalmente per diventare altrettanti punti fermi dell’organizzazione calendariale propria di ciascuna civiltà storicamente determinata. Il Carnevale docet.