Una tigre ferita al Mercadante

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Si sono concluse le repliche de“La signorina Giulia”  al teatro Mercadante con platea piena come gli applausi degli astanti. Sicuramente meritati per uno spettacolo che dipana la repressione della femminilità di una donna senza cedere nella messinscena ai vezzi (o meglio i vizi) di regìe contemporanee forzose. Perché in fondo è questa la missione del regista teatrale, aderire al testo e Christiàn Plana ci è riuscito giustapponendosi, non soppiantando il dettato di Strindberg.

Giovanna Di Rauso incarna una donna divisa tra l’odio per gli uomini inculcato dalla madre e quello per il proprio sesso trasmessole dal padre, impossibilitata ad amare pur volendolo: ha recitato i capricci di una bambina viziata, a tratti innaturale e robotica proprio per sottolineare la repressione che porta l’implosione in sé stessi e poi per lei esplode nel suicidio finale. E’ aiutata a uccidersi (notevole la ripresa sulla testa di Giulia morente del panno della gabbia dell’uccellino ucciso) dal servo Jean, il quale l’ha violata riuscendo attraverso spregiudicatezza a capovolgere i rapporti di forza con cui lei legava (letteralmente anche) gli uomini: diventa serva del suo servo; la recitazione di Massimiliano Gallo è risultata in proposito un po’ piatta. La perdita di obbiettivi della protagonista (“Io non credo più in niente”) che prelude già alla nascita dello schizofrenico teatro post-drammatico trova il suo controcanto nel personaggio di Cristina, reso nella sua cantilenante bigotteria da Autilia Ranieri, tutta vestita di nero, effetto statua di cera.

La giostra dei tempi era secca, portata avanti con procedimento da montaggio cinematografico in cui anche le porte che sbattono e i climax vocali segnano cambiamenti drammaturgici importanti, si sente che ci si avvia verso quelle strategìe moderne di scrittura in cui è il linguaggio, il segno, che certifica i punti di svolta di una vicenda. Ed infatti l’unico ambiante scelto dal regista- uno stanzone con delle muracce arrugginite e una scala cui Giulia si arrampica talvolta per voler scappare da sé- è indicativo del fatto che alcuni punti fondamentali della drammaturgìa classica per cui le cose vanno bene fino a un certo punto e poi cominciano a tracollare, saltano: fin dall’incidente scatenante si ha una slavina di non-eventi, un dialogo in cui vive solo il tempo psicologico e quello oggettivo non passa più.