Come vivevano all’ombra del Vesuvio prima dell’eruzione descritta dal giovane Plinio???

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vivevano

Questa domanda me la sono posta tantissime volte, specie quando da ragazzo, con gli amici si marinava la scuola per andare a visitare gli scavi archeologici. Gli studenti non pagavano l’ingresso a Pompei e confesso di averci passato tantissime giornate, spesso andandoci ad intrufolare in quei siti chiusi al pubblico, sperando di vedere qualcosa di unico da poi raccontare, tra lupanare thermopolio e domus varie, alla ricerca di affreschi per capire ed immaginare come vivessero e cosa facessero a quei tempi. Spesso, però, si finiva rincorsi dai guardiani che si occupavano della vigilanza. Solo a metà degli anni 90 sono riuscito a dare una risposta a tutti i miei quesiti, scoprendo per puro caso l’Antiquarium di Boscoreale. Accadde che un giorno, in compagnia di un collega di università, frequentavo architettura, andavamo verso Torre Annunziata per una stradina secondaria e sbagliando traversa ci trovammo davanti al sito museale. Tra lo stupore e la curiosità decidemmo di entrare, forti anche della gratuità agli studenti universitari. Davanti a noi si aprì un mondo, tutto quello che mancava nelle case pompeiane era lì, una villa rustica ed il museo della civiltà vesuviana del primo secolo d.c., un’isola archeologica in mezzo ad un mare di cemento.
Per giungervi avevamo attraversato il famigerato Piano Napoli, uno dei tanti quartieri nati in provincia di Napoli per ospitare le famiglie napoletane rimaste senza casa all’indomani dei due disastri naturali che agli inizi degli anni 80 scossero, nel vero senso della parola, la popolazione partenopea ovvero il terremoto dell’Irpinia ed il bradisimo puteolano. La necessità di decongestionare la sovraffollata città di Napoli e di dare dignità a chi viveva in case fatiscenti e fortemente danneggiate dai sisma, diede impulso alla stesura delle L.219/81, sulla ricostruzione del post sisma. Una favorevole congiuntura politica, la disponibilità di fondi, ma soprattutto l’idea che uno spazio dall’immenso valore umano ed archeologico avrebbe fatto da collante facilitando l’integrazione di una comunità che andava formandosi, diede lo slancio necessario al completamento dell’opera. Attigua allo scavo, venne aggiunta una struttura museale adibita ad ospitare non solo i reperti rinvenuti nello scavo di Villa della Regina, così chiamata per il toponimo locale afferente ad una grande masseria nelle vicinanze, ma anche tutto quel materiale rinvenuto e mai esposto nei paesi vesuviani. La città degli scavi non ha siti museali e sin dalla scoperta avvenuta nella metà del 700, la maggior parte dei ritrovamenti furono allocati nelle dimore reali dei Borboni e nei musei della capitale duo siciliana.
Durante i lavori di sbancamento per la realizzazione delle palazzine da adibire a case popolari vennero alla luce le mura di quella che a seguito dello scavo, si rivelò una villa romana del primo secolo dc, conservata nella sua interezza dalla furia di Vesevo. Venne tirata fuori tra strati di lapilli, ceneri e pomici una villa rustica completa, una fattoria dove venivano prodotti frutta e ortaggi ma fondamentalmente olio e vino ad uso e consumo sia personale che da destinare alla vendita. L’allora famosissimo Vesvinum il vino prodotto sul monte Ves era molto ricercato a Roma e nel suo vasto impero. Veniva venduto nel circondario ed esportato, così come riscontrato dai marchi apposti sulle anfore vinarie fittili trovate in loco come su quelle recentemente recuperate dalle imbarcazioni mercantili, coeve, riportate alla luce in Piazza Municipio a Napoli, durante i lavori di realizzazione della stazione della metro.
La villa, probabilmente appartenuta a “Fannio Sinistore”, rispecchia appieno lo stile architettonico e le fattezze delle fattorie dell’epoca, l’onnipresente larario posto a guardia dei dolia interrati nell’atrium, dai quali debordano i materiali che la furia del vulcano ha sostituito ai vini in essi contenuti e danno l’idea della forza devastatrice del vulcano. Quello che enologicamente parlando colpisce è il torcularium, il locale dove si pigiava l’uva e dove un grande squarcio largo quanto la parete consente di inquadrare direttamente il cratere del vulcano, lo squarcio è al di sopra di quello che resta del vecchio torchio, oggi ne rimangono dei grossi assi di pietra grigia dalle fattezze legnose. Questo è il frutto dell’opera del grande calore della nube ardente, o lahar, un mix di ceneri gas acqua e lapilli che scendendo impetuosa dal vulcano avvolse la villa, trasformò tutte le forme di vita vegetali in spazi vuoti, volatilizzando quel 90% di acqua che compone quasi tutti gli esseri viventi e trasformandoli in cavità; buchi dove l’intuizione di un archeologo, il Professor Fiorelli dal 1847 ispettore prima e direttore poi degli scavi di Pompei, colò del gesso, che una volta solidificato e portato alla luce rivelava la forma che occupava: uomini, animali, piante . Al di fuori della struttura è stato ripiantato un vigneto, laddove erano state scoperte le tracce dei calchi di quello romano, il Piedirosso è l’uva e probabilmente la stessa di duemila anni fa, come appurato dalle analisi di alcuni reperti pompeiani. Sempre al di fuori, colpisce una sorta di colonna ricurva, la forma è davvero strana, ma mettendosi in una certa posizione se ne capisce il senso. Basta guardare nel senso opposto rispetto alla curvatura per svelare l’arcano, in quella direzione c’è lui, il Vesuvio che fiero padroneggia tutto e tutti sotto di lui, il destino di milioni di persone è nelle sue viscere. La colonna ricurva altro non è, anzi era, che un albero, una quercia, ed in quella curvatura si legge tutta la resistenza che quella pianta dovette per forza di cosa opporre alla violenza del monte di fuoco. Girandosi intorno si nota nelle pareti del fossato dove giace la villa, la stratigrafia delle eruzioni che hanno seppellito il sito, leggendo l’alternanza dei file, lo spessore e la pezzatura dei materiali piroclastici che la compongono è facile immaginare quello che subirono questi luoghi e tutto quello che ci viveva, uomini animali piante, fiumi, case, templi.
Il museo, nato negli anni 90, è in netto contrasto, per stile della struttura, con quello della villa rustica, con l’adiacente teatro moderno in mattoni rossi e con le strutture abitative circostanti. L’abbondanza di cemento e vetrate ci porta indietro nel tempo a quegli architetti americani avanguardisti degli inizi 900. All’entrata una scritta cita testualmente: ANTIQUARIUM NAZIONALE. Uomo e ambiente nel territorio vesuviano. Un messaggio univoco, che crea nel visitatore alte aspettative rispetto all’offerta museale, innanzitutto diciamo che è possibile visitarlo autonomamente dato che ogni pezzo in esso conservato è descritto, come descritti sono gli ambienti vesuviani del tempo, quello marino, montano e fluviale. Si ambiente fluviale, questa terra prima dell’eruzione pliniana era ricca di acque superficiali, scomparse a seguito delle continue e furenti eruzioni. La prima cosa che oggi come allora rapì la mia attenzione fu la lapide di un agrimensore con a fianco la riproduzione di una groma con i fili a piombo, lo strumento di origine egizia per misurare i terreni: avevo appena scoperto un topografo di duemila anni fa. Il percorso è diviso in ambienti ed in ognuno è possibile scoprire quelli che erano gli usi ed il modus vivendi di una civiltà antica, sepolta e conservata ai posteri. Vi stupirete osservando gli attrezzi come zappe roncole pale vanghe falci, che hanno la stessa forgia di quelle moderne, per quanta tecnologia vogliamo applicare, la falce per tagliare l’erba è sempre uguale, ricurva appuntita ed affilata. Potrete osservare cibi come il garum e dove era contenuto, le piante ed i frutti rinvenuti, riconoscendo con facilità melograni noci lenticchie fave cipolle, una forma di pane e le macine in pietra lavica, gli attrezzi della cucina pentole cucchiai e quelli della toilette quotidiana come pinzette pettini. Stupisce la collezione di ampolle, balsamari, unguentari, lacrimai in tante fogge e colori diversi e tutte in vetro. Si il vetro, la terra vesuviana è ricca di silicio ed evidentemente se ne produceva di diverse qualità e colori, ialino, opalescente, trasparente,vioeltto giallo, all’epoca doveva essere davvero prezioso e destinato agli usi più disparati, dal raccogliere le lacrime da destinare agli Dei quale pegno di dolore, alla conservazione di oli e balsami, e dirò di più a trasportare i medicinali. Tra gli oggetti sorprendenti svetta il set di attrezzi medici, bisturi pinzette forbici ed ampolle, facilmente riconoscibili per la loro attualità sia nelle forge che nelle destinazioni d’uso degli oggetti esposti. Si attuale lo è tutto il museo, nella accurata coerente ed esplicativa esposizione dei reperti, al tragitto che ripercorre anche i diversi ecosistemi che componevano il territorio intorno al Monte Ves, l’ambiente fluviale dell’entroterra, quello costiero e quello montano. Sono esposti anche animali o almeno quel che ne resta, molti non più presenti oggi, per la forte antropizzazione dell’area, dal carapace di un piccolo testudo di Hermann ovvero la testuggine ancora oggi presente al sud, al glicarium dove si allevavano i ghiri (Glis-Glis) di cui all’epoca erano ghiotti, al maialino selvatico ancora tutto intero, ai resti di daini cinghiali cervi ed il calco di un cane. Il cane è rimasto sempre vivo nei miei ricordi, di sicuro era attaccato ad un palo e costretto alla catena da quel massiccio collare che tuttora gli attanaglia il collo, cercò di scappare in tutti modi al destino che lo attendeva ma evidentemente nessuno si preoccupò di lui e fu così che il lahar lo immortalò in una torsione disperata, un intenso e lungo guaito di dolore, a guardarlo in quella posizione sembra di ascoltare ancora oggi i suoi lamenti. L’altra vittima preservata in questo luogo si riassume in una testa, dal volto di donna, con la bocca coperta da un velo, con il quale probabilmente cercò di ripararsi dalla polvere che le stringeva la gola e non la faceva respirare, poco prima che tutto venisse ammantato da una coltre scura ed incandescente sorprendendola all’interno della fattoria dove viveva. Superato il plastico della villa Pisanella e delle bellissime statue poste prima dell’uscita, c’è una delle altre stranezze, un dolio oleario, vistosamente riparato con le grappe in metallo e fortunosamente scampato all’eruzione, si notano i lavori di recupero magistralmente effettuati dagli artigiani del tempo.
La visita al museo dell’Uomo e ambiente nel territorio vesuviano, è una esperienza che tutti quelli che abitano la terra intorno al Vesuvio, coloro che davvero vogliono conoscere la storia gli usi ed i costumi di questo luogo debbono obbligatoriamente fare. Non ci sono paragoni con i siti archeologici circostanti, dalla villa di Poppea ad Oplonti agli scavi di Pompei ed Ercolano, se davvero si vuol capire come si viveva all’ombra del Vesuvio nel 79 dc, bisogna comunque passare dall’Antiquarium è un museo propedeutico a tutti gli scavi, scrigno della cultura romana nel territorio vesuviano. Penso vivamente che tutte le scuole vesuviane debbano farsi carico di far visitare ai propri alunni l’Antiquarium , se vogliono per davvero insegnare la storia interpretando la quotidianità di quel tempo.
Laddove si abbia il piacere a passare una giornata diversa dal solito vi consiglio di abbinare la visita ad una delle tante aziende viticole del vesuviano che si occupano di enoturismo, innanzitutto per saggiare l’evoluzione del Vesvinum, che oggi rivive nel Lacryma Christi ed in secondo luogo per conoscere e promuovere le eccellenze di questa terra meravigliosa.
Per informazioni: http://www.pompeiisites.org

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