L’inverno campano raccontato dallo chef Pietro Parisi

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I piatti poveri della cucina contadina rivivono al ristorante Era Ora di Palma Campania e Nonna Nannina di San Gennaro Vesuviano

Solo ai tempi del benessere diffuso il freddo intenso è diventato il complice ideale di succulenti pietanze più grasse e saporose. Anzi l’alibi per poter esagerare con salsiccia, peperoncino, lasagne e cioccolate varie.  Prima invece era il nemico giornaliero da battere tutti i giorni per sopravvivere nei lunghi e rigidi inverni senza comfort e soprattutto senza abbondanza di cibo. Fino agli anni cinquanta, del secolo scorso, la vita dura di chi lavorava nei campi o nelle poche fabbriche della regione era scandita dalla ricerca di piatti più sostanziosi e calorici. La carne era un miraggio che, nei casi più fortunati, si consumava una volta a settimana, il resto dei pasti era tutto ad appannaggio dei prodotti dell’orto che confermavano che i campani erano un popolo di “mangiafoglie”. Da questa realtà povera ed essenzialmente rurale sono nati tanti piatti che sono entrati a far parte della ricca, gustosa e famosa tradizione gastronomica della Campania. Come conferma uno chef di prestigio che ha fatto della cultura contadina la sua chiave di lettura della cucina e della sua idea di ristorazione. Pietro Parisi è lo chef che ha messo il volto ed i nomi dei contadini, allevatori e produttori artigiani che gli forniscono la materia prima per i suoi piatti, sulle pareti del suo locale. Un modo inedito per dire al mondo che quella cultura e quelle bontà sono la fonte della nostra vita. Tant’è che Parisi si è guadagnato sul campo il titolo di cuoco – contadino. E chi meglio di lui può raccontare quali piatti, ancora oggi, restano il simbolo della cucina territoriale e regionale. Un tempo, sottolinea lo chef, la cucina casalinga seguiva il ritmo delle stagioni e la scarsa disponibilità di prodotti. Con la miseria, continua Parisi, sono nati piatti come le Scarole con fagioli e noci, la Minestra nera con pane duro, la pizza e’ raurinio o farinata con la saraga, cioè una sorta di polenta fritta fatta con il mais bianco e le sarde affumicate. Mentre per la carne bisognava aspettare l’uccisione del maiale che avveniva più o meni in questi giorni in occasione di Sant’Antonio Abate. Allora, spiega lo chef, con tutto quello che restava dalla lavorazione dei salumi e della carne più pregiata si preparavano piatti poveri come il sofritto, i fegatini nella rete con l’alloro o la minestra con il piede di maiale; mentre la minestra maritata di Natale si faceva con il brodo di gallina. Poi c’era la coda di vitello bollita, la lingua imbottita con patate al forno e o’ mascariello, cioè la guancia di manzo che si preparava con le patate o al sugo. Sul versante del mare gli unici piatti che i contadini si potevano permettere erano le parti meno nobili dello stoccafisso e baccalà, le sarde affumicate e le anguille di fiume. Murzelle e baccalà e ventricelli di stocco erano le prelibatezze dell’epoca, precisa Parisi, ed oggi nei suoi locali Era Ora di Palma Campania e Nonna Nannina di San Gennaro Vesuviano è facile imbattersi in gustose rivisitazioni come il Guanciale all’Aglianico o il Crocchè di minestra maritata o ancora piatti semplici come le scarole con i fagioli. Persino sulle sue rinomate pizze possiamo trovare spicchi di tradizione e bontà con la pizza con lo stoccafisso all’insalata o la pizza al soffritto