Revenant: quando il troppo stroppia

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Hugh Glass ed il figlio adolescente Hawk, avuto con una donna indiana della tribù Pawnee, fanno da guide ad una spedizione di caccia alla ricerca di pelli e pellicce. Sulla strada del ritorno, subiranno un attacco da parte della tribù Arikara, da cui si salveranno lui, il figlio, e pochi altri della spedizione. La vita di tutti i sopravvissuti sarà nelle mani delle due guide, anche se da subito vi sono attriti con John Fitzgerald, anch’egli scampato all’attacco, razzista, e poco fiducioso nelle capacità della guida e del figlio mezzosangue.
Nel mezzo di un’esplorazione fatta da solo Glass viene brutalmente attaccato da un orso, a cui sopravvive ma riportando ferite gravissime.
Il gruppo lo recupera, e tenta di trasportarlo fino a destinazione, ma quando diventa evidente che ciò è impossibile, si decide semplicemente di lasciare tre persone con lui per aspettare la sua dipartita e dargli degna sepoltura. Nei tre, oltre al figlio resterà anche Fitzgerald. Tra i due nascerà uno scontro ed il ragazzo avrà la peggio.
Creduto Glass ormai morto, Fitzgerald convince il terzo componente ad abbandonarlo. Glass, però, è ben lungi dal lasciare questo mondo, e farà di tutto per avere la sua vendetta.
Inarritu affronta con questo film argomenti cari alla storia americana ed alla storia del cinema. Dal primo momento, infatti, vengono messe in dubbio le origini eroiche del popolo americano, capace di espropriare, con raggiri e forza, qualsiasi risorsa ai nativi.
Parallelamente il tema della vendetta viene visto da due punti diametralmente opposti. Da una parte, infatti, vi è il capo tribù Arikara alla ricerca disperata della figlia che gli è stata sottratta da uomini bianchi, capace di fare qualsiasi cosa per riaverla e per ripagare con la stessa moneta il male gli hanno fatto.
Dall’altra parte, Hugh, durante il suo viaggio di ritorno, incontrerà un indiano che ha avuto la stessa malasorte del capo tribù. Questi, tuttavia, ha un’idea totalmente diversa sul da farsi, perché a detta sua “la vendetta è nelle mani di Dio”.
Nei momenti di tensione più alta, lo spettatore viene ancora più coinvolto. Negli scontri, nelle fughe e nei combattimenti, infatti, verrà spesso usata una sola camera, che si muoverà all’interno dell’azione, e che permetterà di andare oltre il telo bianco e poter vedere, nel vero senso della parola, da vicino quello che succede.
La punta di diamante del film è sicuramente un Leonardo di Caprio straordinario, capace di interpretare in maniera completa un personaggio appesantito da un passato terribile, rabbioso, ma che allo stesso tempo fa trasparire costantemente un forte amore paterno.
Tutto questo, però, viene messo in secondo piano da una serie di scelte che non convincono. Il film infatti è troppo lungo. Le riprese paesaggistiche, per quanto bellissime e mozzafiato, sembrano avere come unico scopo quello di allungare il brodo. Si scade fin da subito in un’autocelebrazione che rende il film pesante, a tratti noioso, ed interminabile.
Fallisce così il tentativo del protagonista di chiedere allo spettatore, ormai stanco, alla fine, guardando diritto nell’obiettivo, da che parte sta.