“Napoli dai mille volti” e il pericolo dei puristi che non vanno via

A la recherche del cosmopolitismo perduto

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Inoltrandomi uno di questi giorni nella selva di canali televisivi dopo il settimo, sono arrivata alle televisioni private: si trasmettevano edizioni anni ’80 del “Salotto Tolino”, ufficialmente un cenacolo di amici uniti per ricordare i grandi autori della canzone e della poesia napoletana, in realtà un pubblico di nonne imbellettate con la messa in piega e uomini col bastone, cantanti/declamatori ormai stonati dagli anni (anche i meno anziani), con il pianoforte a battere il ritmo da danza macabra tramite le pestate fantasmagoriche dell’esecutore. Poi ho ripreso in mano un album di Massimo Ranieri di un po’ di anni fa, “Ranieri canta Napoli”. La genesi di questo disco racconta che il cantante, ormai stanco della solita versione della canzone napoletana da mandolino&via Posillipo, si rivolge a Mauro Pagani, grande arrangiatore ed ex componente della PFM, per tirare fuori dal repertorio un’idea forte che non incarni lo stereotipo, ma la storia di Napoli con tutti i popoli passati di qui, la vera “Napoli dai mille volti”, quella capace nel suo tempo millenario di accogliere e assimilare influenze da tutto il mondo, dagli arabi agli spagnoli, dagli americani ai francesi. Quel che ne è venuto fuori è qualcosa di etnico e universale insieme: cambiano i ritmi, il sound, gli strumenti, nascono sottotesti; è l’essenza di una città non più gelosa di sé, che parla, adesso sì, l’idioma di una lingua e non più di un dialetto, il cui pensiero è comprensibile da Forcella a New York e non si ferma più, come un Cristo qualunque, a Eboli-Piedigrotta.

 

Di operazioni recenti che prendono una cosa e affermano la poliedricità di sensi dell’oggetto, c’è anche “Gatta Cenerentola”, il film cartone animato che rilegge la famosa fiaba ambientandola a Napoli e mettendo in atto un interessantissimo rivolgimento dei ruoli nel “Polo della scienza e della memoria”, dove si materializzano ologrammi rivelatori per i protagonisti: a salvare Cenerentola non è il principe (‘o Rre), ma la disagiata fata che si rivela addirittura principe (Gemito). Si tratta di un esperto sguardo degli sceneggiatori, perché questo marchingegno è funzionale alla morale: ciò che pensi sia solo finta proiezione mentale, ciò che della realtà sta al punto più basso, incredibile e immaginario, è la strada giusta. Si è presa Napoli e la si è inserita in un racconto come veicolo per dire qualcos’altro di estraneo; non si deve avere vergogna di ammettere che la città è stata “usata” per raccontare una storia che non a caso dallo Giambattista Basile de “Lo Cunto de li cunti” è passata senza difficoltà nelle mani dei fratelli Grimm e poi di Perrault, due tedeschi e un francese…

 

Si potrebbero ancora elencare, quali vessilliferi di questo discorso, grandi nomi come Eduardo o Pino Daniele: loro di Napoli hanno capito il sostrato e l’hanno usato per rimappare, ridescrivere, rifare, dare un volto nuovo, il che non significa non conservare nulla del precedente, anzi. E ora,  articoli di numerosi giornali nazionali vengono a descrivere Napoli come novella “città dai mille set” in cui ferve attività culturale/cinematografica: ma siamo sicuri che in molti prodotti del panorama odierno della bollata “cultura napoletana”(dev’essere sempre dop, eh)  si specchi una “città dai mille volti”? O non ci si limita, invece, ad operazioni che moriranno come sono nate, nel perimetro tra via dei Mille e Quartieri spagnoli? Dicono, “Napoli è una città che se ne cade di teatro”: quelli che pronunciano questa frase sono gli stessi per cui espatriare significherebbe cose come “tradire il proprio paese”, quelli che non sanno una parola d’inglese e rimangono a svolgere la propria professione artistica nello stesso perimetro dei suddetti film/libri. Coloro che si “sentono napoletani” pretendono di “avere delle radici”, di far crescere questa città rimanendoci a tutti i costi, proferendo parole che stanno bene in bocca agli avventori del salotto Tolino o agli arrangiamenti di Murolo e Bruni, ricordati in tenuta da funerale solo dai puristi. Ecco sì, puristi: una volta un tale voleva per forza riprodurre le stesse condizioni della “Prima” (si oda la solennità altisonante dell’espressione) del Flauto magico, finché gli hanno rammentato quanto Mozart stesso sarebbe voluto scappare dalle sgarrupate situazioni di quella rappresentazione. L’ammirazione incondizionata per le origini porta alla svalutazione delle potenzialità individuali, a un fascismo dello spirito, a un loggionismo dell’arte e della vita, per cui ti accontenti se vinci un premio nei piccoli paesi in giro per l’Italia. L’Italia che diventa il “mondo”, dal momento che il resto del mondo è diventato un ologramma dimenticato sui libri di geografia.

” ‘A rumba d”e scugnizze” da “Ranieri canta Napoli”: